Neuroscienze, apprendimento e didattica della matematica


 

Capitolo precedente

 

 

12. Il rapporto, il continuo, il discreto

Di fronte al nume
è infante l’uomo,
come di fronte
all’uomo il fanciullo
ERACLITO

L’idea di  logos è veramente ricca di significati che via via si sono stabilizzati intorno al concetto di rapporto, di discorso, di ragionamento. In Eraclito troviamo:

è dell’anima un logos che accresce se stesso

dove, in questo caso1 logos sembra voler dire "tensione "espressiva" e tale tensione espressiva si manifesta nella tendenza propria dell’anima a moltiplicare le proprie assonanze ed immagini, in una progressione pressoché infinita, secondo un inesausto ritmo generativo di mondi.

Il logos e’ per la scuola di Pitagora il fondamento per la comprensione del mondo:

I Pitagorici affermano che [criterio di verità] sia il, non inteso nel significato generale, ma in quello che deriva dalle scienze matematiche - come appunto diceva Filolao - e che, essendo legato alla percezione mentale della natura del tutto, abbia con essa una certa affinità, se è vero come è vero, che il simile viene compreso naturalmente dal simile2

L'uso dello stesso termine, logos, per indicare rapporto in senso matematico e argomentazione razionale è molto suggestivo e porta ad aggiungere profondità e spessore al pensiero pitagorico. Il rapporto A:B sembra essere visto come un movimento di pensiero, come una qualche costruzione rigorosa, quantitativa che lega A a B, che permette di dedurre B da A come una qualunque altra forma di ragionamento.

Il costituirsi di un rapporto permette di dare alla descrizione delle entità in gioco un valore di "verità" pari a quello che il ragionare astratto avrebbe raggiunto, con Aristotele, attraverso sillogismi ben formati. L'identità del termine , tra rapporto e ragione, toglie dunque al rapporto il solo connotato numerico e gli conferisce la dignità di pensiero, di un pensiero che si muove e porta a individuare forme, somiglianze, leggi, principi universali3

Il   logos
nella scuola pitagorica

In Euclide il concetto viene definitivamente formalizzato riducendone anche, in parte, l’originaria generalità.

Rapporto tra due grandezze omogenee e’ un certo modo di comportarsi rispetto alla quantità

In questa definizione, molto criticata perché ritenuta tautologica, si dichiara che può esistere un rapporto solo tra grandezze omogenee e che questo rapporto ha a che fare con una qualche quantità.
E’ possibile allora stabilire un rapporto tra aree, tra forme geometriche, tra angoli? In quale senso resta ancora possibile stabilire un rapporto tra un dio e l’uomo, tra un uomo e un bambino?
La definizione successiva precisa meglio quando questo e’ possibile:

Si dice che hanno tra loro rapporto le grandezze le quali possono, se moltiplicate, superarsi reciprocamente4

Ora Euclide esplicitamente chiede che gli enti coi quali si vuole stabilire un rapporto verifichino due proprietà fondamentali:

(a) gli enti debbono potersi confrontare, comparare tra loro in modo che si possa stabilire univocamente se A e’ o no più "grande" di B. Si chiede quindi, come si dice oggi, che gli enti coi quali si vuole stabilire un rapporto, formino un insieme totalmente ordinato. Quest’interpretazione dà un significato preciso al termine "superarsi".

(b) data una entità A deve essere possibile costruire 2A, 3A, 4A ecc., in modo tale che, date due qualunque entità A e B si possano sempre trovare interi positivi n e m tali che

nA > B e mB > A.

Questa proprietà e’ nota oggi come postulato di Archimede.

Il rapporto in Euclide

Archimede infatti, nell’Arenario, dimostra che dato un granello di sabbia e l’intero universo esiste un numero intero n di granelli di sabbia, che lui calcola esplicitamente, talmente grande da formare un volume più grande di quello dell’intero universo (che suppone una sfera di raggio finito).

Questo postulato e’ descritto in modo molto efficace da Guedj. E’ la descrizione di una lezione di matematica e dell’impressione che questa fece sul ragazzo che la stava ascoltando e che ora, da vecchio, la racconta:

"Ricordo quasi parola per parola quello che disse l’insegnante: "esiste sempre un multiplo del più piccolo che e’ superiore al più grande". Lì per lì, non abbiamo capito niente. Allora ce lo ha spiegato: "avendo un segmento piccolo e uno grande, e’ sempre possibile, moltiplicando quello piccolo, superare quello grande" Nella mia testa ci fu come un’esplosione. Subito dopo suonò la campana. Avrei voluto parlare all’insegnante, ma lui aveva fretta. Nel tornare a casa mi sono seduto su dei ruderi e ho riflettuto per la prima volta in vita mia, lo avevo già fatto, voglio dire, ma involontariamente, mentre quella volta mi sono imposto di riflettere. Mi sono detto : "Ottavio il segmento piccolo sei tu" E tutto mi e’ parso chiaro. L’insegnate aveva ripetuto le parole di Archimede: "Per quanto tu possa essere un segmento piccolo, puoi sempre moltiplicarti e diventare più grande di qualunque altro segmento, di qualsiasi grandezza"5

Questo modo di proporre il postulato di Archimede gli conferisce molto più significato che non il modo astratto che abbiamo riferito sopra. Già l’uso di segmenti invece che di grandezze astratte, l’uso dei termini "piccolo" e "grande", del termine "superare", fornisce immediatamente, nella mente di chi ascolta, delle immagini mentali in grado di dare significato, forma, stabilità al concetto che si vuole esprimere.

Il postulato di Archimede

Naturalmente i postulati (a) e (b) sono formulati col loro corredo di proprietà formali (tipo

nA+nB = n(A+B)
(n+m)A = nA + mA
n(mA)= (nm)A)

che ne garantiscono l’uso standard6 .

Un primo esempio, ovvio, di entità che verificano questi postulati, sono i numeri interi. Un altro e’ dato dai segmenti: ha infatti senso dire che il segmento A e’ "piu’ grande" del segmento B, intendendo con questo che A e’ più lungo di B; il postulato archimedeo e’ ovviamente verificato.
In questo modo l’idea di "grandezza" che e’ essenzialmente geometrica, legata all’idea di "estensione" si salda all’idea di "quantità" che e’ essenzialmente aritmetica, legata al ritmo, al numero di "volte" , al numero intero.
Questo passaggio chiarificatore in Euclide e’ sicuramente il frutto di un lungo percorso costellato di esempi , di casi particolari e sopratutto di un modo di pensiero che vedeva nel procedere per analogie un importante e produttivo metodo d’indagine scientifica.
L’idea che potessero esistere della analogie tra i numeri interi, le loro proprietà e i fatti del mondo sensibile e’ alla base del pensiero pitagorico di due secoli precedente alla sistemazione euclidea. La prima esperienza in questo senso, quella sicuramente più significativa, lega l’aritmetica, la fisica e la bellezza in un intreccio che, per come la leggenda ce lo ha restituito, ha così strabiliato il suo scopritore, Pitagora, da farne poi un paradigma per tutto il suo pensiero filosofico. Si tratta della scoperta dell’armonia musicale.

L’analogia tra numero
ed estensione
Tutte le cose
al numero consentono
PITAGORA

Le vibrazioni di due corde sottoposte alla stessa tensione, ma di lunghezze diverse, producevano, pizzicate insieme, un suono gradevole solo quando il rapporto tra le loro lunghezze era come 1 con 2 (accordo di ottava) o 2 con 3 (accordo di quinta) o 3 con 4 (accordo di quarta) e così via. Non contava la "misura" effettiva delle corde, ma il loro rapporto e cioè il fatto che una fosse il doppio dell’altra, o che fosse tre volte la metà dell’altra ecc. Questa misura poteva essere una lunghezza, o anche un volume (quello del martello che pare Pitagora abbia ascoltato nella bottega del fabbro) o la tensione provocata da pesi diversi su corde della medesima lunghezza. Quello che contava insomma era il logos che legava le due corde tra loro, come 1 con 2 o come 2 con 3!
Racconta Giamblico

[Pitagora] passò davanti all’officina di un fabbro e, per sorte in un certo senso divina, ebbe a udire dei martelli che battevano il ferro sull’incudine e davano suoni tutti in perfetto accordo armonico reciproco, tranne una coppia. In quei suoni Pitagora riconosceva gli accordi di ottava, di quinta e di quarta, e notava che l’intervallo di quarta e quinta era di se stesso dissonante, ma idoneo a colmare la differenza di grandezza intercorrente tra l’una e l’altra. Lieto che con l’aiuto divino il suo intento venisse a realizzarsi, entrò nell’officina e grazie a svariate prove capì che la differenza nell’altezza dei suoni dipendeva dal peso dei martelli e non dalla forza con cui si batteva, ne’ dalla forma dei martelli medesimi, ne’ dalla posizione del ferro battuto. Poi dopo aver fissato con la medesima precisione il peso dei martelli, se ne tornò a casa. Qui fissò all’angolo di due pareti un unico piolo... e al piolo legò una dopo l’altra quattro corde di eguale spessore e tensione, fatte dalla stesa materia e dallo stesso numero di fili, e all’estremità inferiore di esse legò un peso, badando che le corde fossero di lunghezza perfettamente uguale. Quindi pizzicando le corde a due a due alternativamente trovava gli accordi già menzionati, uno per ogni coppia di corde. In effetti capì che la corda tesa col peso più grande risuonava di un rapporto di ottava con quella tesa col peso più piccolo: una aveva un peso di 12 unità e l’altra di 6. Così dimostrava che l’ottava si basa sul rapporto 2 con 1 come indicavano gli stessi pesi. La corda con il peso più grande risuonava in un accordo di quinta con quella che aveva otto unità di peso ed era posta accanto alla corda tesa col peso più piccolo: su questa base dimostrò che la quinta e’ basata sul rapporto di 3 con 2, lo stesso nel quale stavano i pesi...7

Pesi, velocità, aree , volumi, intensità luminosa, grandezza d’animo, senso di giustizia, tutto poteva essere rapportato trattato astrattamente sulla base di una qualche "misura" che ne evidenziasse la caratteristica, la "grandezza" da prendere in esame. Il segmento, a cui e’ associata la sua lunghezza, diventa il paradigma universale, l’esempio portante, la geometrizzazione di tutta la teoria. Il segmento e’ immediatamente visibile e la sua lunghezza immediatamente confrontabile con quella degli altri segmenti senza bisogno di un "metro" che ne misuri in un qualche modo il valore. In questo modo l’immagine visiva della "grandezza" , qualunque cosa essa sia, diventa un segmento e questo fornirà degli efficaci isomorfismi mentali in grado di guidare l’intuizione e la sua interazione con le costruzioni logico- formali. Se da un lato dunque l’analogia tra grandezze, rapporti tra grandezze e numeri interi apriva a una nuova visione del mondo, d’altro lato profonde differenze e difficoltà anche sul piano concettuale rendevano a volte impossibile una totale identificazione dei due mondi. Se l’aritmetica e la geometria parevano unificarsi nel pensiero pitagorico, nello stesso tempo l’approfondimento dei concetti a cui quel pensiero portava, creerà per la prima volta e solo nella nostra cultura occidentale, la consapevolezza di un incolmabile fossato che separa il discreto dal continuo, il numero (qui e nel seguito da intendersi come numero naturale) dalla forma

La scoperta dell’armonia
musicale

"Nel principio Iddio creò i cieli e la terra. E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: "Sia la luce!" E la luce fu. .. e Dio separò la luce dalle tenebre....Così fu sera, poi fu mattina: e fu il primo giorno. Poi Dio disse: "Ci sia una distesa tra le acque che separi le acque dalle acque". E Dio fece la distesa e separò le acque ch’erano sotto la distesa dalle acque ch’erano sopra la distesa. E così fu..... Così fu sera, poi fu mattina, e fu il secondo giorno."

Questo passo della Genesi è molto bello: da un solo gesto di divisione nascono improvvisi il concetto di tempo - così fu sera e poi mattina - e il concetto di grandezza di dimensione - la distesa - il sopra, il sotto. Il tempo e lo spazio. Sono categorie fondamentali per la nostra mente e certamente chi narrava "sapeva" in qualche modo che dovevano essere al principio di ogni altra cosa.
E ora che può confrontarsi con una grandezza, la divisione acquista un significato particolare: non più solo tener separate due entità diverse, ma anche operare su un tutto omogeneo per crearne parti.
Il tempo, il ritmo. Il tempo è l’immagine dinamica dell’eternità . La nostra mente crea il tempo mediante il movimento nello spazio o con il lampeggiare uniforme di un punto luminoso nel buio.

".... Chiunque si tuffi nell'infinito, sia nel tempo che nello spazio, senza interrompersi ha bisogno di punti fissi, di pietre miliari perché altrimenti il suo movimento non sarebbe distinguibile dall’immobilità'. Devono esserci stelle oltre le quali sfrecciare, segnali dai quali egli possa misurare la distanza che ha traversato. Egli deve dividere l'universo in distanze di una data lunghezza, in compartimenti che ricorrano in una serie interminabile. Ogni volta che egli supera un confine tra un compartimento e l'altro, il suo orologio fa tic....."8

Il suo orologio fa tic. Nella Genesi i sei giorni della creazione rotolano in un silenzio assoluto, senza nessun accenno a suoni o rumori, ma già quel ritmo interno alle cose scuote l’infinito e lo rende in qualche modo accessibile ai movimenti del corpo e della mente. Perché la nostra mente ha bisogno di creare configurazioni stabili nel caos indistinto di informazioni che riceve dalle percezioni del mondo esterno, ed è strutturata proprio per farlo. Così gli stimoli percettivi si organizzano secondo leggi permanenti e creano forme che costruiscono pensieri e azioni. Il ritmo e la misura. La misura e il tempo. Come nasce la misura? Basta una volta.... una volta nel tempo e una volta nello spazio.
Secondo Platone il tempo è l’immagine che scorre secondo una numerazione, di una eternità immobile, ferma nell’uno 9 della genesi . Che significato ha l’uno quando in esso si ferma tutto? Perde il suo profilo di numero e acquista piuttosto quello della forma, dell’essenza, non conta ma qualifica. Forse è per questo che per molti secoli l’uno non è stato considerato un numero vero e proprio.
"Volta" porta in sé la ripetizione, l’avvicendamento, il ruotare e il chiudersi come un cerchio, il momento, la frequenza di un fatto nel tempo. E ancora: è il confronto tra quantità, quanto l’una sta in un’altra, il loro moltiplicarsi e dividersi.
Il pensare "una volta" porta in sé la numerazione e la comparazione: l’aritmetica e la geometria.
I numeri e la numerazione vengono associati a un’azione ritmica nel tempo, durante la quale si ripete lo stesso movimento di pensiero. Il senso del movimento lo troviamo anche nel cuore della parola greca "arithmos"10 (numero). Tutti i sostantivi in "thmos" infatti hanno un valore dinamico. Ma il dinamismo del numero si racchiude esclusivamente nel suo ritmare, non c’è altro.
Il descrivere con la parola questi lievi saltelli della mente è un processo che storicamente ha avuto tempi lunghissimi. Il senso del ritmo e il centro verbale appartengono ad aree cerebrali funzionalmente affini, ma l’elaborazione di parole per numeri al di là del tre e del quattro non è stata affatto veloce. Ancora oggi esistono popoli che praticamente non hanno parole per contare, e che sanno solo mostrare le dita dicendo "tanti così". In questo stadio è stato osservato11 che i numeri segnalati dalle dita della mano non derivano l’uno dall’altro per aggiunta di una unità, ma ognuno ha una sua fisionomia ben precisa, come se fosse non una rappresentazione di quantità, per cui a un dito se ne aggiunge un altro, ma di qualità. Così l’uno e il due e il tre si ritrovano accomunati dallo stesso destino che li vede fermi, isolati, non generati l’uno dall’altro da un movimento ritmico, ma ognuno con una propria essenza, con un proprio essere indivisibile

Numeri e grandezze

E’ stata in effetti osservata una rottura nella scala numerica intorno al quattro. Esperimenti condotti da più ricercatori12 hanno evidenziato come i processi di valutazione numerica di un certo numero di oggetti siano completamente diversi per numeri maggiori o minori di quattro. In questo ultimo caso infatti la valutazione viene effettuata con un processo di valutazione percettiva immediata, globale, di "stima" , mentre per numeri più grandi è necessario un conteggio vero e proprio. Si spiegherebbe in questo modo13 il fatto che il segno dell’unità è ripetuto, nelle scritture antiche, fino al massimo di quattro volte (pensiamo per esempio alle cifre romane). Serie di segni più lunghe risulterebbero illeggibili in una visione immediata e costringerebbero a un conteggio sequenziale, rendendo lenta e difficile la lettura. Per i numeri più grandi, o viene introdotto un nuovo simbolo, oppure i segni unitari vengono organizzati in due o più gruppi, in modo che si possano di nuovo stimare in un sol colpo d’occhio14 .
Questa percezione unitaria dei raggruppamenti di figure, questo stimare "a colpo d’occhio" fa parte delle modalità percettive della visione, modalità ben studiate e descritte dalle leggi della Gestalt.
Il numero, la parola, il ritmo sono specializzazioni di zone della corteccia, la sinistra, che non sanno organizzare spazialmente una immagine, mentre le valutazioni visive immediate degli oggetti, così come i processi intuitivi del pensiero che richiedono un’analisi globale, più che sequenziale, sono prerogativa di zone destre, che non sanno elaborare il linguaggio. Ad esempio nell’uomo adulto vi è una parte del lobo parietale sinistro che è responsabile dell’abilità di fare sottrazioni e addizioni15 . La lesione di questa parte del cervello provoca una sindrome clinica chiamata acalculia, l’incapacità appunto di eseguire calcoli.
L’integrazione delle funzioni cerebrali destre e sinistre, come già detto, avviene attraverso un grosso fascio di fibre nervose, il corpo calloso, che unisce i due emisferi e permette la loro collaborazione, dandoci l’impressione di uniformità e continuità nel pensiero. Questa uniformità è però solo un’impressione: il pensiero è formato da tanti moduli costruiti in aree cerebrali che hanno ognuna una specificità funzionale ben precisa e che successivamente si assemblano nelle cosiddette aree associative. Il risultato finale del pensiero dipende, come in una ricetta di cucina, non solo dal tipo di ingredienti presenti ma anche dalla loro quantità in rapporto al tutto. Così il pensare alla soluzione sintetica di un problema di geometria da parte di una mente in cui dominano i processi propri delle funzioni analitico-verbali, porta a scarsi risultati, perché questi non hanno la capacità di elaborare pensieri sullo spazio e sulle relazioni tra gli elementi di una configurazione, mentre in una mente in cui prevale il prodotto del pensiero visivo su quello sequenziale può risultare difficile esporre verbalmente lo svolgimento dello stesso problema, o dare giustificazioni analitiche a una intuizione immediata di soluzione.
L’elaborazione parallela degli stimoli provenienti dal mondo esterno o dall’ambiente interno a noi avviene in maniera spontanea e per una gran parte inconsapevole, ma possiamo cercare di separare un poco questi fili che si intrecciano in trame fitte nel tessuto del nostro pensiero, e di seguirli per quanto possibile nel percorso che ci interessa: il rapporto tra il numero e la grandezza.

Processi cerebrali
di valutazione numerica

Consideriamo un qualunque insieme formato da diversi oggetti. Esistono in matematica due concetti che evidenziano processi e modi diversi di elaborazione del pensiero di fronte a quello stesso stimolo: la cardinalità e l’ordinalità.
La cardinalità esprime l’insieme nel suo essere percepito immediatamente, ne diventa una qualità, legata in qualche modo all’essenza di una quantità. L’ordinalità invece deriva da un processo sequenziale, ritmico, di conteggio tramite il quale si impone un ordine tra gli elementi dell’insieme considerato: "sesto" ha senso se prima di lui si può designare il quinto e dopo di lui il settimo.
E‚ interessante notare che per stabilire se due insiemi hanno la stessa cardinalità non devono essere effettuati necessariamente processi di calcolo. Basta trovare il modo di "legare" ogni elemento di un insieme a uno e un solo elemento dell’altro. Se tutti gli elementi risultano coinvolti in questo legame, allora i due insiemi hanno la stessa cardinalità. La cardinalità dunque nasce da un’operazione di comparazione, non di conteggio
Nella mente di popoli privi di parole per i numeri, la cardinalità si esprime con gesti della mano ognuno dei quali è indipendente dall’altro ma che si fermano alla capacità massima di stima immediata, quattro o cinque elementi. Quando interviene il linguaggio, che assegna un nome al numero e che lo tratta nella sua modalità seriale, ritmica, la dominanza passa a questo processo di pensiero e la cardinalità si perde. Nello studio sui Nambikwara, Lévi-Strauss osserva:

Nella conversazione sono utilizzate forme esclamative, per esempio nelle discussioni fra uomini al ritorno dalla caccia : "Uno solo io ho ucciso - due io - tre io - quattro io - cinque io...."

Questo popolo non riesce ancora a slegare il numero dal processo cerebrale che lo elabora e che lo nomina, elaborazione che si svolge sequenzialmente Nell’esporre il risultato della caccia si ripercorre dall’uno al cinque le tappe che si sono succedute. C’è una reale difficoltà a ricostruire una quantità in modi che non passino attraverso il susseguirsi ritmico del contare e a realizzare che è sufficiente un solo termine, il cinque, per esprimere la quantità effettiva.
Ci sono modi per "acchiappare" la cardinalità di un insieme anche se non si sa contare. Tra i resti fossili di popoli dediti alla pastorizia sono stati trovati sacchetti pieni di sassolini. L’interpretazione sull’uso di questi oggetti è stata incerta fino a quando si è ipotizzato che fossero un valido strumento in uso tra pastori che non conoscevano i numeri per controllare che la sera entrassero nell’ovile tante pecore quante ne erano uscite la mattina: bastava mettere nel sacchetto un sassolino per ogni pecora che usciva e toglierlo la sera per ogni pecora che entrava. Se il sacchetto restava vuoto non si erano perse pecore. Ogni sassolino era associato a una pecora e il sacchetto di sassolini era l’analogo del gregge di pecore. Il rapporto tra i sassolini dentro il sacco e quelli fuori era lo stesso tra le pecore fuori dall’ovile e quelle rientrate.

Numeri ordinali e
numeri cardinali

Si capisce attraverso questi esempi come possa nascere un intrecciarsi di questi due piani, quello della percezione dell’essenza di una quantità, di una grandezza, di una estensione e quello invece che pone l’accento su ogni elemento che costituisce l’oggetto e lo lega agli altri solo con un operazione di ordinamento. La dominanza stretta di un processo di pensiero su un altro lascia posto a uno scambio di informazioni e a una collaborazione nella costruzione di simboli usando dati provenienti da funzioni mentali diverse e nella loro elaborazione. Questo intreccio non deve però farci dimenticare le matrici multiple del nostro pensiero, che restano separate e diverse nelle considerazioni e nei singoli prodotti.

Consideriamo la figura seguente:



Certamente l’oggetto sulla sinistra viene percepito come una unità, mentre quello sulla destra viene visto come una pluralità. Cosa conferisce queste caratteristiche ai due disegni? Forse il fatto che identifichiamo quello a sinistra come un rettangolo e non come quattro segmenti con estremi in comune, e neanche come due parti di piano, una interna e una esterna alla linea chiusa, mentre vediamo quello a destra come un susseguirsi di punti separati, anche se legati da una vicinanza e quindi da una sorta di destino comune. Nel caso seguente:



l’unità è più difficile da definire. Sicuramente il caso (a) la rappresenta e il caso (d) no, ma nelle situazioni intermedie l'occhio è incerto. Mi sembra di poter affermare che il caso (b) sia ancora percepito come una unità, della quale si può stabilire anche una cardinalità, 4, (non comincia ad essere contraddittorio tutto ciò?) e il caso (c) presenti una ambiguità di lettura: una bandiera per esempio (cioè una figura chiusa), o quattro rettangoli molto vicini?
Unità e cardinalità, qui sorge una questione: come può esserci una cardinalità nell’uno diversa dall’uno stesso?
Euclide nel definire i numeri nel libro VII degli Elementi, quello di aritmetica, pone prima di tutto l’unità, e con lei definisce il numero

"Numero è una pluralità composta di unità"16

Non definisce invece l’unità tra le grandezze nel libro V dedicato ai rapporti . Non ha senso o importanza per lui definire la grandezza unitaria. Lo strumento necessario per trattare le grandezze è la comparazione:

Una grandezza è parte di una grandezza, la minore di quella maggiore, quando essa misuri la maggiore.

La grandezza maggiore è multipla di quella minore, quando sia misurata dalla minore.17

La comparazione permette di confrontare due grandezze e di stabilire quante volte una di loro entra nell’altra. "Volta". Rientra in gioco questo movimento del pensiero, e in questo caso suo strumento non può che essere il compasso.

In questo modo sia AB che CD che EF sono "uno" ma nel loro compararsi AB diventa unità rispetto a CD, mentre non lo è rispetto a EF. L’unità così, tra le grandezze, non è più un concetto assoluto come nei numeri, dove l’uno è tanto assoluto da diventarne l’unica radice pur stando fuori di essi.
Questa distinzione porta come conseguenza una differenza nel considerare le parti di una grandezza oppure le parti di un numero. Tra le grandezze viene definita solo "la parte", al singolare, ed è una grandezza minore o uguale alla prima che la misuri esattamente. In questo senso "parte" è sinonimo di "parte aliquota

U è parte di AB. E’ una qualunque delle parti in cui divide AB, e viene chiamato, in questo caso "settimo". Ed è chiaro che in questo termine si perde completamente il senso di ordine, che acquista se lo usiamo nel movimento del conteggio. Il "settimo" U è nato da una comparazione e dalla stima di una cardinalità. Il segmento V invece, non è parte di AB, secondo la definizione euclidea, così come ST non è parte di CD.
La figura genera facilmente un movimento di pensiero che lega insieme V, AB e U.
La comparazione viene spontanea e le tacche già segnate in AB aiutano a contare "le volte": V è tre volte U, AB è sette volte U. Il rapporto tra AB e V e’ lo stesso del rapporto tra 7 e 3. Siamo ancora vicinissimi al cuore della forma: con quanto sappiamo possiamo riprodurre infinite forme "analoghe" tra di loro.

Unità e pluralità

Due forme sono analoghe quando gli elementi che le costituiscono sono negli stessi rapporti.

I vasi (a) e (b), della figura, hanno la stessa forma, non solo perche’ hanno due manici una base e un collo, ma perche’ i rapporti tra le parti dell’uno sono gli stessi dei rapporti tra le corrispondenti parti dell’altro. Ad esempio l’altezza e’ circa due volte e mezzo l’attaccatura della base.

I vasi (a) e (c) invece non hanno la stesa forma perché la base del vaso (c) e’ troppo stretta; piu’ precisamente, nel vaso (c), l’altezza e’ circa 5 volte e mezzo l’attaccatura della base.

Analogia tra forme

Il legame che si può creare due grandezze, come quello che si e’ creato tra la grandezze AB e V considerato prima, non esiste a priori, non è un dato assoluto, ma dipende solo dall’esistenza di una terza grandezza, U che sia parte di entrambe. L’esistenza di una parte così fatta può essere manifesta in una data situazione, come nel caso che abbiamo considerato, come può non esserlo. Questo è ciò che accade con i segmenti CD e CF o tra l’altezza del vaso e la sua imboccatura. Non esiste immediatamente niente che leghi i due segmenti, e non esisterà fino a quando la mente non userà un ragionamento e un conseguente meccanismo di ricerca per appurarlo. Se il ragionamento porta a un risultato positivo, diremo, in generale, che i due segmenti hanno una ragione comune, un logos, intendendo con ciò che esiste un terzo segmento che è parte di entrambi. La parola "ragione" (logos) è il termine usato dai greci ed è rimasto tale nella lingua inglese (ratio), mentre in italiano viene usato il termine "rapporto", che esprime anche il movimento della comparazione: il misurare come un "segnare" secondo un numero prefissato di volte.
Il ragionamento alla base della ricerca di una "parte" comune a due grandezze A e B, supponendo B più piccola di A, è il seguente

1. Tolgo B da A tante volte fin quando è possibile. Se il resto è zero, allora B è parte di A, altrimenti avanza qualcosa più piccolo di B

2. Sia C il resto. Tolgo C da B tante volte fin quando è possibile. Se il resto è zero allora C è parte di B (e quindi anche di A), altrimenti

3. Sia D il resto. Tolgo D da C tante volte fin quando è possibile. Se il resto è zero allora D è parte di C (e quindi anche di B e di A), altrimenti

4. E così via.........

In questo procedimento il numero interviene ancora solo per contare le "volte" che un segmento sta in un altro, e a costruire attraverso esse un rapporto tra le due grandezze iniziali, A e B.

Nell’esempio che abbiamo raffigurato, se D sta esattamente 3 volte in C come risulta dalla figura, allora, risalendo, possiamo ritrovare A e B in rapporto a D, la misura comune:

C = 3D, B = 2C + D = 6D+D = 7D, A = 2B + C = 14D+3D=17D

e quindi A : B = 17 : 7, il rapporto tra le grandezze A e B è analogo al rapporto tra i numeri 17 e 7.

Il fatto che i resti dopo ogni singolo passo diventassero sempre piu’ piccoli, fece presagire ai primi pitagorici che questo metodo dovesse essere universale, che in questo modo ogni rapporto tra grandezze potesse identificarsi ad un rapporto tra numeri, l’analogia tra numero e grandezza poneva le basi per un primo universale approccio scientifico e quantitativo al mondo.

Tutte le cose al numero consentono

e’ uno dei detti che Pitagora pronunciava spessissimo davanti a tutti, secondo quanto ci riferisce Giamblico18 .

L'algorimo euclideo
delle divisioni successive

La scoperta che esistono grandezze i cui rapporti non sono esprimibili coi numeri, che esistono rapporti per i quali l’algoritmo euclideo, pur fornendo ad ogni passo dei resti sempre piu’ piccoli, va avanti all’infinito, dovette probabilmente scuotere radicalmente queste convinzioni rimettendo in gioco l’idea stessa di grandezza, l’idea di infinito, l’idea atomista di un quanto iniziale col quale esprimere ogni quantità. Nello spazio geometrico, in un segmento, e’ insita la possibilità di una divisione all’infinito, la possibilità di trovare infiniti pezzi sempre più piccoli la cui somma sia finita. L’idea di continuità contrapposta al discreto riemerge evidenziando diversità profonde. E’ nel pentagono che, probabilmente, per la prima volta, questa separazione si e’ chiaramente mostrata.

Se A e’ la diagonale del pentagono regolare e B il suo lato, allora B sta in A una volta e quello che resta, diciamo C , e’ il lato di un nuovo pentagono, più piccolo, di cui B e’ la diagonale.

B conterrà C una volta con un resto D che e’ il lato di un nuovo pentagono di diagonale C. Si capisce che il processo puo’ andare avanti all’infinito perché e’ sempre

A = B +C , B=C+D , C=D+E , D=E+F , ....

e ogni volta si realizza un nuovo pentagono nel quale, per quanto piccolo sia, il lato non potrà mai misurare esattamente la diagonale poiché questa e’ comunque più grande del lato e più piccola del doppio lato.



Il "non-rapporto"
l’irrazionale

Sul versante dei numeri la faccenda è diversa. Abbiamo visto come i numeri scaturiscano da una unità predefinita, immutabile, e come ognuno di loro ne sia una pluralità. Questo fatto porta come conseguenza che di un numero si possa definire la "parte""nello stesso significato che ha tra le grandezze, ma che sia possibile definire anche un altro oggetto: le "parti", al plurale:

Un numero è parte di un [altro] numero, il minore di quello maggiore, quando esso misuri il maggiore [cioè lo divida]

"parti" invece di un numero, quando non lo misuri.19

Ad esempio. Dati il 6, il 5, il 2, diremo che il due è (la terza) parte di 6, e che è invece due parti di 5.

Perché tra le grandezze non è possibile dare le stesse definizioni iniziali di parte e di parti? Per un motivo cruciale: riferendoci al prercedente rettangolo, CF, che non è parte di CD perché non lo misura esattamente, non è detto che ne sia "parti" che sia cioe’ formato da un certo numero di parti di CD, non è detto cioè che esista una grandezza U comune a CD e a CF che le misuri entrambi esattamente dal momento che il ragionamento esposto non è detto termini in un numero finito di passi. Non è quindi possibile dire in generale, che se un segmento non ne misura un altro, ne è comunque un certo numero di parti .
Con i numeri interi invece questo è sempre possibile, dal momento che hanno un fondamento comune nell’unità preesistente a loro: dati due numeri qualunque, o il minore divide esattamente il maggiore (cioè senza resto) e allora ne è "parte", o non lo divide esattamente, e allora ne è "parti".
L’algoritmo di Euclide, che possiamo applicare anche ai numeri interi, trova in quel caso un numero (il più grande tra quelli esistenti) che sia parte dei due numeri dati, cioè il più grande tra i divisori comuni ad essi, ed e’ quando questo numero e’ uno che i due numeri dati si dicono primi tra loro. Concetto questo, come quello di numero primo, di fondamentale importanza in aritmetica, che non trova alcun equivalente in geometria. Solo in tempi molto recenti, in seguito a un fondamentale lavoro di riunificazione dell’aritmetica con la geometria operato essenzialmente dalla scuola francese nella seconda metà del XX secolo, il numero primo trova un analogo nel concetto varietà irriducibile che condurrà poi all’idea moderna di "punto" all’interno della teoria degli schemi.

Differenze tra numeri (interi)
e grandezze

Il considerare non più le grandezze ma le pluralità ci ha condotto, fin dai tempi di Pitagora, dalla geometria all’arimetica, dal continuo al discreto.
Questo passaggio è critico: il movimento di pensiero che si sviluppava agile nel ruotare, comparare, individuare forme e crearne altre, improvvisamente si ferma. Il pensiero visivo non è più capace di intervenire su un dominio che richiede altri circuiti e altri strumenti cerebrali legati al pensiero verbale e deve lasciare posto allo svilupparsi implacabile di algoritmi e procedure di calcolo sempre più complicate che si sviluppano lungo linee indicate da definizioni formali.
L’aritmetica elementare si impara facilmente proprio perché non richiede capacità creative, basta tenere a mente qualche regola. Ma l’applicazione corretta delle regole porta solo a risultati corretti, non alla comprensione. Se vogliamo educare il pensiero alla comprensione dobbiamo fare in modo che sotto le regole che diamo agli alunni ci siano dei significati, e che questi significati siano completamente colti.
Questo è un punto cruciale: il significato profondo di una situazione si coglie solo se sappiamo rappresentarne la struttura in una sintesi "visiva". Le rappresentazioni mentali così costruite potranno essere manipolate dando origine a una comprensione "per ragionamento" e non per regole formali.
Ecco un esempio elementare di quanto voglio dire: in genere una persona di media cultura sa dire se 10+1 moltiplicato per 6 -1 è minore o maggiore di 10 -1 moltiplicato per 6+1, e arriva alla risposta calcolando, cioè eseguendo prima le addizioni e sottrazioni, poi i prodotti e infine confrontando i risultati. Ma se alle stesse persone chiediamo di arrivare a dare la risposta non per calcolo ma attraverso un ragionamento, la percentuale si abbassa drasticamente, e resta bassa anche se vengono aiutate presentando lo stesso problema in una forma facilmente visualizzabile, per esempio: un rettangolo ha le dimensioni pari a 11 x 5. La sua area è maggiore o minore di quella di un rettangolo con dimensioni 9 x 7? (la visualizzazione geometrica dei dati serve a compattare l’informazione e a permetterne l’elaborazione (vedi Miller)
)

 

L’immagine geometrica del problema rende manifesto qualcosa di nuovo che non era richiesto dalla domanda iniziale ma che contribuisce a aumentare la comprensione del problema. Modificando il problema senza cambiarne la struttura ci accorgiamo che tanto più e’ rettangolare la forma del problema tanto più evidente e’ la sua soluzione.
La manipolazione delle rappresentazioni sintetiche del problema porta a significati che vanno controllati e descritti dalle funzioni verbali-analitiche . Semplificando potremmo dire che la formazione di un pensiero matematico consiste nell’educare i processi sintetico-rappresentativi alla comprensione di contenuti anche astratti e i processi analitici e verbali al controllo della correttezza logica e formale della manipolazione delle rappresentazioni mentali, all’applicazione di algoritmi e di procedure di calcolo e alla comunicazione con l’esterno. La comprensione quindi è un "processo", non un atto immediato. Parte di questi processi spesso avvengono in tempi lunghi e con elaborazioni non consapevoli (è stato coniato a questo proposito il termine di "inconscio cognitivo") e la loro conclusione a volte affiora alla coscienza come un lampo improvviso che fa scattare il famoso "Eureka"
Non è possibile definire il significato solo come ciò che emerge da una rete di legami tra parole, tra un insieme di simboli verbali e un altro.
Come dice il filosofo David Lewis, tradurre una frase in una rappresentazione simile non ci fornisce una spiegazione della sua significatività più di quanto non farebbe la sua traduzione in latino.
Costruire allora , accanto ai legami tra le parole, anche una rete di legami tra esse e le rappresentazioni mentali, costituisce il lavoro più duro e qualificante della matematica. E deve essere costantemente l’obiettivo, faticoso ma irrinunciabile, di ogni insegnante. Ricordiamoci che questo obiettivo, oggi spesso disatteso , è stato subito chiaro al nascere del pensiero scientifico: i Pitagorici distinguevano nettamente coloro che si accontentavano di imparare formule e precetti (li chiamavano Acusmatici) dai Matematici

Pitagora esponeva i suoi insegnamenti a chi lo frequentava o distesamente o per simboli. Chè il suo insegnamento era di due modi: e quelli che lo frequentavano si distinguevano in matematici e acusmatici. Matematici erano quelli che conoscevano la parte più importante e approfondita della sua dottrina, acusmatici quelli cui erano insegnate soltanto le regole sommarie, senza accurate spiegazioni 20

Comprensione
"per ragionamento"
 

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