***   A che cosa servono le stelle ? ***

Mario Abundo

Università Tor Vergata, Roma

A molti di noi sarà capitato, in una notte senza stelle, di trovarsi a percorrere da soli vicoli bui e deserti di un centro storico, e di non vedere l'ora di raggiungere un luogo illuminato, affollato. Ci accorgiamo di come sia confortante la luminosità del cielo notturno, solo quando essa ci viene a mancare. Similmente, coloro che hanno avuto la possibilità di assistere ad un eclisse totale di Sole, possono ricordare il senso di smarrimento e di angoscia, provato durante quei pochi minuti in cui il Sole era dentro il cono d'ombra proiettato dalla Luna. Se ci facciamo bambini, possiamo provare a chiederci: "perché esistono le stelle ? perché esistono le eclissi, ed i colori, e i profumi ….?" Molte delle stupende cose dell'Universo non sono effettivamente necessarie, eppure ci sono. Se non esistessero i fiori, o le rondini che volano nel cielo variopinto di un tramonto primaverile, o i dolci sguardi tra due innamorati, o mille altre cose, il mondo potrebbe esistere ugualmente, più o meno con le stesse caratteristiche. La maggior parte degli oggetti dell'Universo è costruito in base al principio di utilità. Prendendo a prestito l'idea del filosofo Mill, secondo la quale l'etica e il comportamento dell'uomo devono essere regolati da questo principio, proviamo ad applicarlo all'Universo. Intendiamo dire che l'Universo è come è, poiché questo è il migliore (o il più utile) universo che si sarebbe potuto realizzare, tra quelli soddisfacenti certi vincoli, quale, ad esempio, la possibilità di permettere sulla Terra la vita basata sul carbonio. Così la legge di gravitazione universale ed il fatto che l'interazione tra masse dia luogo a forze centrali, sono in qualche modo essenziali al moto dei pianeti, degli astri, e di tutti gli oggetti del cosmo. Le vere leggi dell'universo sembrano conformate all'esistenza di esso.
Immaginiamo che un demiurgo abbia intenzione di realizzare un universo; egli provvederà prima ad individuare i parametri (o le variabili) caratteristici dell'universo che vuol realizzare, a definire poi per ogni possibile realizzazione una funzione utilità (che dipende dai parametri detti sopra), ed infine a scegliere quella realizzazione che rende massima la funzione utilità. Naturalmente, in tale impresa, il demiurgo si troverebbe ad avere a che fare con una funzione con un numero infinito di variabili. La scelta della funzione utilità sarebbe arbitraria, ma il demiurgo dovrebbe farla in modo da dare maggior peso a quelle configurazioni dell'universo, da lui ritenute più utili. Cerchiamo di spiegare il concetto in termini matematici, ma in modo molto elementare. Prendiamo un esempio dalla geometria; supponiamo di considerare l’insieme dei rettangoli del piano (configurazioni) e, per ognuno di questi rettangoli, scegliamo come funzione utilità l’area racchiusa da esso. Consideriamo allora il seguente problema: tra tutti i rettangoli di perimetro 2p fissato, trovare quello di area massima. La risposta è elementare: il rettangolo cercato è il quadrato avente per lato la quarta parte del perimetro. Si tratta di un problema di ottimizzazione; in termini pratici: possiamo supporre di avere a disposizione un certo quantitativo di filo spinato e di voler con esso recintare un terreno (di forma rettangolare) che sia più ampio (nel senso della superficie da esso racchiusa) possibile.
Molti fenomeni della natura sono conformati a queste argomentazioni. Tra tutte le pavimentazioni del piano costruite mediante poligoni regolari, la pavimentazione esagonale è quella che, a parità di perimetro, racchiude la massima area: forse è per questo che le cellette di cera costruite dalle api per riporvi il miele hanno forma esagonale1.
Il problema di massimizzare la funzione utilità si può formalizzare nel modo seguente: abbiamo una funzione
f(q 1, q 2….,q n) delle n variabili q 1, q 2….,q n e cerchiamo quei valori q 1, q 2…., q n per cui f(q 1, q 2….,q n) è massima. Nel caso dell’esempio dei rettangoli, abbiamo a che fare con una funzione di una sola variabile (n =1). Se 2p è il perimetro del rettangolo, la somma della base e dell’altezza di esso vale p; ponendo la base uguale a q , l’altezza risulta uguale a p - q . Cosicché la funzione utilità (area del rettangolo) è in questo caso f(q ) = q (p - q ), il cui grafico, in un riferimento cartesiano in cui sulle ascisse è riportata la variabile q , e sull’asse delle ordinate il valore della funzione f, è una parabola con la concavità verso il basso e vertice nel punto di ascissa q = p/2 e ordinata f (q ) = p2 /4. Ma se la base è q = p/2, l’altezza risulta p - q = p - p/2 = p/2. Dunque, il rettangolo di area massima è il quadrato di lato p/2.
In generale, non è detto che una funzione utilità abbia un unico punto di massimo. Consideriamo il seguente esempio: due fidanzati devono recarsi dal luogo A al posto B e vogliono scegliere il percorso in modo da rimanere insieme più a lungo possibile. La linea più breve congiungente A e B è un segmento di retta (la geodetica) e, se la funzione utilità è il tempo di percorrenza (o equivalentemente la lunghezza del percorso), seguendo la geodetica f sarà minima. Però esistono infiniti altri percorsi, cioè linee congiungenti A e B, per cui f sarà massima. Teoricamente, i due fidanzati potrebbero ideare percorsi di lunghezza e tempo di percorrenza infiniti; in pratica, tenendo conto della topografia del luogo, esisterà al più un numero finito di percorsi che massimizzano la funzione utilità. Dunque, la funzione utilità può avere più di un massimo, nel senso che il suo grafico può avere anche 2 o più picchi, di uguale altezza.
Ora, ritorniamo al nostro discorso sull’Universo. Una singola realizzazione di un universo, cioè una configurazione, è data assegnando i valori di un numero grandissimo (praticamente infinito) di variabili q 1, q2….,qn . Si può ritenere che il nostro universo sia l’espressione della particolare realizzazione q 1, q 2…., qn che rende massima la funzione utilità. In questo caso si tratta di una funzione impossibile da descrivere, a causa della sua complessità e dell’enorme numero di variabili. Quello che possiamo dire, però, è che la funzione utilità per l’Universo non è dotata di un unico massimo. Se, ad esempio, non esistessero i colori, o i profumi, non abbiamo difficoltà a ritenere che, in tal caso, l’Universo potrebbe aver luogo ugualmente, con pressappoco le stesse caratteristiche. Rimanendo all’interno di un discorso meramente materialistico e prescindendo da qualunque coinvolgimento della coscienza e della psiche umana, possiamo concludere che in un universo in cui non esistessero i fiori, la funzione utilità avrebbe approssimativamente lo stesso valore che essa assume per il nostro universo, non inferiore. In altre parole, non è l'esistenza dei colori, dei profumi o dei fiori ad implicare l'Universo in cui viviamo; esso potrebbe essere stato realizzato senza questi oggetti con trascurabile perdita per la funzione utilità: essa avrebbe assunto pressapoco lo stesso valore e l'Universo avrebbe funzionato ugualmente bene. Un universo senza la luce delle stelle sarebbe altrettanto verosimigliante del nostro universo. Ora, ammettiamo che, del tutto casualmente, dal brodo primordiale di sostanze presente sul nostro pianeta parecchi milioni di anni fa, si siano formati i primi agglomerati di molecole organiche (gli antenati degli aminoacidi e delle proteine - mattoni della vita). Come discusso da molti eminenti scienziati, esperti sull'origine della vita, una tale eventualità sarebbe molto remota, nel senso che essa sarebbe, non impossibile, ma oltremodo inverosimile: la probabilità che un aminoacido si sia formato casualmente è praticamente zero.2 Ciononostante, continuiamo pure ad ammettere che la vita sulla Terra sia nata spontaneamente, seguendo le leggi del caso. Sorge allora spontanea la domanda: "perché la Natura avrebbe scelto di realizzare un mondo con i colori, con i profumi, con la luce delle stelle…. ? ovvero, tra le infinite possibili realizzazioni aventi lo stesso valore della funzione utilità, perché sarebbe stata preferita la configurazione del nostro universo ? ". Se la probabilità del formarsi spontaneo della vita sulla Terra è trascurabile, ancor più piccola è la probabilità che si sia formato, tra gli infiniti possibili universi che rendono massima la funzione utilità, proprio l ' Universo in cui viviamo.
Queste argomentazioni, se crediamo al principio di verosimiglianza (secondo il quale sono verosimili solo gli eventi che hanno effettivamente probabilità non trascurabile di accadere), non possono non evidenziare delle oggettive difficoltà nel ritenere vera l'ipotesi che, non solo la vita sulla Terra, ma tutto l'Universo, si siano formati spontaneamente e casualmente, senza l'intervento divino. Ciò non fornisce una prova dell'esistenza di Dio, ma forse può contribuire a far nascere qualche dubbio in quelli che non credono e a rinsaldare, in quanti credono, l'idea di un Dio creativo che ha realizzato un universo non banale, in cui configurazioni improbabili sono state infine scelte.
D'altra parte, il problema di dimostrare o meno l'esistenza di Dio, è in qualche modo malposto. Se Dio esiste, Egli è fuori dal tempo, dallo spazio, dall'Universo. Dunque, non è possibile usare le leggi della nostra Fisica, né le leggi del nostro pensiero per inferire scientificamente l'esistenza di qualcosa che sta al di fuori degli oggetti che sappiamo logicamente trattare. Ogni teoria scientifica ben definita è compatibile con sé stessa, nel senso che le sue leggi sono in accordo con tutte le implicazioni della teoria, ma non può riuscire a provare qualcosa che sta al di fuori di essa, né a dimostrare la sua correttezza.
Rimaniamo allora con i nostri interrogativi e le nostre incertezze; alla domanda: "a che cosa servono le stelle? " possiamo rispondere, in modo per certi versi banale, ma ad un tempo pieno di significato: "per guardarle", fidando che qualcuno le abbia messe in cielo, perché noi godessimo della loro vista.

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1 M. Abundo: Sulla geometria della Natura Nuova Secondaria, n.3, 66-68, 1984.

2 M. Abundo : Dio e/o casualità ? Un approccio probabilistico Nuova Secondaria, n. 9, 74-78, 1994.

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