Letture sotto l’ombrellone
Mario Abundo
Università Tor Vergata, Roma
Amo il mese di agosto: in primo luogo, perché mi concedo qualche giorno di vacanza dopo le fatiche invernali, ma anche per quelle che chiamo "le mie letture estive". Ogni anno, prima di partire, mi procuro un certo numero di libri, in parte rispolverando gli scaffali di casa, in parte depredando le librerie delle ristampe di capolavori in edizioni economiche. Tra quelli intendo comprendere saggi di filosofia, testi di divulgazione scientifica, classici, libri di poesie e, perché no, qualche buon romanzo. Esercitare la lettura riesce a distendermi, ma non si deve credere che i momenti del riposo estivo non siano adatti anche a letture impegnative (purché siano, almeno in parte, diverse dalla materia di cui ci si occupa tutto l’anno). Quest’estate devo ringraziare, in particolare, il professore di Filosofia di mio figlio, poiché, assegnandogli un certo numero di letture come "compiti" per le vacanze, mi ha dato la possibilità di avere sotto gli occhi e quindi leggere (o rileggere) testi interessantissimi, Posso assicurare che le riflessioni che scaturiscono da una lettura condotta sotto l’ombrellone, nulla hanno da invidiare (se non riescono addirittura più incisive) a quelle che si potrebbero fare nello studio di casa. Dopo un anno che non è stato avaro di amarezze e dolori personali e familiari, le mie letture estive mi danno qualche attimo di piacevole evasione e di relax, tanto che sarei portato a consigliarle a chi debba rimettersi dagli affanni e dalle preoccupazioni di un periodo non precisamente dei più sereni. Tra le grida dei bambini che sguazzano nel mare, la musica di un juke-box o di una radio, mi viene da pensare come la cosiddetta "modernità" non contraddistingua unicamente il nostro mondo attuale. Se si escludono i grandi traguardi della tecnologia, della comunicazione, il mondo di oggi non è poi tanto qualitativamente diverso da come appariva qualche centinaio d’anni prima della nascita di Cristo. Se Seneca avesse conosciuto l’uso del fax, o addirittura della posta elettronica, avrebbe scritto le "Lettere a Lucilio" con la consapevolezza che questi le avrebbe ricevute quasi immediatamente. Ma gli argomenti trattati sono quelli di cui potrebbero discorrere due amici del nostro mondo contemporaneo.
Leggendo i giornali o guardando il telegiornale, non possiamo non sentirci scandalizzati e oltraggiati dalle continue notizie riguardo alle violenze sui minori e alla pedofilia. Il mondo di oggi appare talvolta perverso, corrotto ed immorale. Ma se proviamo a leggere Platone, Epicuro o qualunque altro filosofo della Grecia antica, ci accorgiamo che i rapporti omosessuali e l’amore (non platonico!) verso i fanciulli, erano consuetudine per i filosofi del tempo (che erano gli intellettuali ed i saggi di allora). Leggendo, ad esempio, il "Simposio" di Platone, intuiamo che ciò che ci scandalizza oggi era praticato dallo stesso "irreprensibile" Socrate. Confesso di non essere più abituato alle speculazioni dialettiche dei filosofi. Come matematico, preferisco il linguaggio della Scienza, chiaro, preciso ed inequivocabile. A chi voglia accusarmi di aridità concettuale, rispondo che lo studioso di scienze è più vicino al cuore dell’uomo (e quindi a Dio) di quanto non lo siano certi umanisti e letterati. Comunque, non posso che lodare la capacità di tanti umanisti, e tanti nostri politici, di saper esprimere un concetto, utilizzando molte più parole di quante non necessitino. Supponiamo di voler dire che oggi, intorno alle ore 13, è piovuto in una certa località. Qualche letterato, amante della speculazione dialettica, potrebbe dire: " radunati i saggi e i notabili del paese, e interrogatili sulle condizioni atmosferiche del luogo nelle prime ore pomeridiane, è risultato che non si può non negare che, all’incirca attorno all’ora in cui è usuale che la maggior parte della gente si metta a tavola per il pranzo, non ci sia stata una locale precipitazione a carattere piovoso".
Confesso che l’abilità di dire ciò che è ovvio, riempiendo pagine e pagine per esprimere sempre lo stesso concetto, non mi appartiene. Devo riconoscere però che non è assolutamente facile acquistare tale abilità.
I pensatori antichi erano dotati di comune buon senso, molto più di alcuni intellettuali odierni. Un esempio si ottiene dalla lettura di Epicuro, il quale si spinge addirittura (nella "Lettera a Meneceo") a considerazioni di carattere probabilistico. Il motivo per cui gli antichi greci non svilupparono questa parte della Matematica, il "Calcolo delle Probabilità", risiede forse nella loro incapacità di svincolarsi dalla forte e continua influenza dei vari dei in ogni evento dell’Universo (ciononostante, il Caso era impersonato in Tyche, la dea della fortuna). Personalmente credo che, se gli antichi Greci avessero posseduto qualche strumento di indagine in più, non avrebbero avuto difficoltà ad arrivare a comprendere addirittura i più moderni principi della Matematica, come la "Probabilità Quantistica" e "la relatività del Caso" (queste ultime riguardano la descrizione di eventi e fenomeni riguardanti, tra l’altro, l’infinitamente piccolo, il cuore dell’atomo ). Un bel libro riguardante questi argomenti ("Urne e Camaleonti" di Luigi Accardi) è stato una delle mie letture estive dello scorso anno.
Sembra incredibile come alcune intuizioni di carattere matematico e fisico siano già presenti nelle opere di illustri pensatori vissuti alcuni secoli prima di Cristo. Secondo Lucio Russo (nel suo libro "La Rivoluzione dimenticata") molte delle conoscenze scientifiche che hanno trovato una trattazione definitiva solo alcuni secoli orsono, esistevano a livello embrionale anche presso i Greci della civiltà ionica. Molti scritti su argomenti interessanti furono poi "dimenticati" in epoche successive, forse soprattutto per causa dei Romani che, popolo fondamentalmente rozzo e dedito per lo più alla guerra ed alla conservazione dei domini conquistati, non amavano (o semplicemente non ritenevano né utili, né necessarie) sottili speculazioni scientifiche.
E’ vero che il mondo di oggi è invaso dalla tecnologia e l’uomo è sottoposto a troppe e continue sollecitazioni, in numero superiore a quelle che potrebbe sopportare. E’ certamente accattivante l’idea di Rousseau secondo la quale l’uomo è fondamentalmente buono, ma il suo allontanamento dallo "stato di natura" e la socializzazione non hanno creato che disuguaglianze e problemi. E’ indubbio, però, che l’evoluzione della vita sociale e lo sviluppo della tecnologia muovono verso un’esistenza migliore, e che dipende solo dall’uomo il buon utilizzo dei mezzi a sua disposizione. Oggi si fa un abuso del computer e si usano a sproposito molte parole di significato informatico; non è vero, altresì, che nell’era della comunicazione elettronica via INTERNET l’uomo abbia perso la sua identità, assoggettandosi alla macchina. L’uomo di scienze progetta, costruisce o utilizza il computer, ma conosce i suoi limiti e non ne è schiavo; gli uomini "spettatori", invece, bombardati dai messaggi allettanti ed ingannevoli dei mass media, vengono portati ad interpretare erroneamente la portata dei traguardi raggiunti dalle applicazioni dell’ Informatica, ed a farne un uso improprio, talvolta (per non dire spesso) a proprio svantaggio.
Di questa confusione risente anche il mondo della scuola. Come dice Lucio Russo nel suo libro "Segmenti e bastoncini", quella di oggi si è ridotta ad essere "una scuola per consumatori", assetati non già di voglia di imparare, ma solo di diventare capaci di utilizzare procedure (soprattutto informatiche) pensate e realizzate da altri, senza più esercitare il proprio cervello. Il parallelismo con lo studio della Geometria è evidente: non usando più la deduzione nello studio degli enti geometrici ("i segmenti"), ci si è ridotti ormai solo a studiarne i parametri quantitativi, come la misura della loro estensione, rispetto ad una fissata unità di misura ("il bastoncino").
Uno dei luoghi comuni che andrebbe maggiormente sfatato, è quello secondo il quale lo scienziato è più lontano da Dio di quanto non lo sia il filosofo. Ma come potrebbe essere così per l’uomo che si interroga sull’origine dell’ universo e delle leggi di Natura ? Non esiste scritto di Einstein in cui non vi sia cenno all’ operato del Creatore per la "costruzione" dell’universo in cui viviamo; anche l’astronoma Margherita Hack, che si professa atea, non rifugge dal parlare di Dio.
Mettendo a confronto la difficoltà di comprensione nel leggere, ad esempio, la "Logica della Scoperta Scientifica" di Popper con quella incontrata nella lettura delle opere di certi umanisti (tra i quali illustri pedagogisti, psicologi e anche i cosiddetti esperti del mondo della scuola) che non usano un metodo di indagine ed un linguaggio scientifico (indipendentemente dalla materia di cui si occupano), mi pare evidente che la complicazione del linguaggio possa essere giustificata solo a patto che si ottenga un vantaggio nello sviscerare al lettore un pensiero particolarmente complesso. Le gratuite complicazioni sono da evitare, visto che viviamo in un universo il cui contenuto di Informazione (entropia) tende naturalmente ad aumentare indefinitamente.
Ritornando a considerazioni più pratiche, una delle cause del disamore dei giovani e degli adolescenti di oggi per la lettura, è da ricercarsi nella maggior immediatezza nell’interpretazione delle immagini (che compaiono, ad esempio, sul monitor di un personal computer), che di un testo scritto. Ciò accade, naturalmente, perché il mondo di oggi ha abituato un po’ tutti ad una naturale svogliatezza e ad essere restii nell’usare il proprio cervello. A mio parere, il grado di civiltà di un popolo si può misurare dal numero dei libri prodotti; non è un caso che un celebre personaggio (non ricordo, al momento, il nome), interrogato su quale manufatto dell’uomo avrebbe voluto salvare dalla distruzione del nostro pianeta, abbia scelto di conservare i libri.