Euclide e la visione per angoli

di Laura Catastini

 

L'Ottica di Euclide ha conosciuto un lento declino a partire dal II secolo d.c., epoca in cui venne scritta un nuovo trattato sulla visione diretta e indiretta e sui fenomeni ottici, da parte di Tolomeo, che basò il suo lavoro su basi più generali, non solo strettamente geometriche, rifiutando peraltro alcuni aspetti del modello euclideo della visione. Una critica in particolare è rimasta nella storia, quella cioè secondo la quale Tolomeo contesta al modello di Euclide, inteso come visione per raggi discreti, di portare a un assurdo: non si potrebbero infatti vedere cose colpite da singoli raggi visivi perch´ singoli raggi incidono in singoli punti, ed essendo il punto senza dimensione, nulla si potrebbe vedere.
Le critiche all'ottica di Euclide, dopo Tolomeo, sono in generale rimaste immutate nel tempo e presuppongono una interpretazione del testo euclideo sostanzialmente identica a quella data da Tolomeo stesso. Sembra interessante allora analizzare accuratamente le basi su cui si sviluppano le argomentazioni di Tolomeo contro l'ottica euclidea, perché le eventuali inesattezze o gli errori veri e propri di interpretazione hanno contribuito a falsare e a distorcere le basi su cui si fonda l'opera di Euclide, impoverendola e facendola apparire a volte contraddittoria o confusa.
La presente scheda intende quindi proporre una nuova interpretazione dell'Ottica di Euclide che renda comprensibili affermazioni altrimenti oscure e che sciolga alcune contraddizioni apparenti.

La nozione chiave su cui poggia l'ottica di Euclide è quella di angolo visivo, l'angolo formato dai due raggi passanti per gli estremi del segmento considerato. L'opera è trattata quasi esclusivamente sulla base di questa nozione, che la caratterizza fortemente, tanto che la prospettiva antica, per esempio, si differenzia da quella piana rinascimentale proprio perché le dimensioni apparenti di un oggetto che si allontana variano non proporzionalmente alla distanza ma in funzione dell'angolo visivo. (prop. 8 Ottica) Praticamente in quasi tutta l'opera non si parla mai di singoli raggi e dei singoli punti su cui incidono come di elementi importanti su cui fondare dimostrazioni o impostare deduzioni. Tenendo ben presente questo fatto, esaminiamo le premesse:

 

 

Premessa 1: Sia posto che i segmenti rettilinei a partire dall'occhio si portino a una distanza tra di loro di dimensioni sempre maggiori.

 

 

La prima premessa riguarda la distribuzione nello spazio dei raggi visivi: si distribuiscono radialmente (e non per esempio, paralleli tra loro, a formare un cilindro visivo). Non viene detto nulla che postuli il fatto che i raggi visivi sono discreti. Infatti il distanziarsi tra loro definisce solo la distribuzione radiale, compatibile con la continuità. (Tolomeo, che aveva postulato la continuità, mantiene il cono visivo e la distribuzione radiale) La divergenza angolare dei raggi visivi è compatibile con lo svolgimento all'infinito (nel senso usato negli Elementi) dei raggi medesimi . Si potrebbe pensare che si volesse postulare la possibilità del raggio visivo di arrivare fino a cose anche lontanissime, come gli astri. In Aristotele troviamo un accenno a questo problema, che era certo dibattuto ai tempi, in polemica con Empedocle e Platone:

 

 

Del tutto assurdo è dire che la vista vede per qualche cosa ch'esce da lei e che il raggio visuale si stende fino agli astri o che, uscita dall'occhio, si congiunge a una certa distanza con la luce esterna, come pretendono alcuni. [Del senso e dei sensibili 438 a 26].

 

 

E ancora, sul versante questa volta dei raggi luminosi:

Per ciò non ha detto giusto Empedocle, e chiunque altro come lui, che la luce si propaga e si distende in un dato momento tra la terra e la periferia dell'universo, senza che ce ne accorgiamo. [De anima 418 b 21]

 

 

Ricordiamo che lo studio dell'ottica era in genere strettamente intrecciato all'epoca a questioni filosofiche e metafisiche. Sembra quindi molto plausibile che Euclide, pur impostando un lavoro squisitamente geometrico, abbia dovuto porre nelle premesse i principi fondamentali della teoria da lui scelta (quella emissionista) per quanto riguardava il fenomeno percettivo della visione, perché strettamente pertinente e condizionante il modello matematico che andava costruendo. Questa puntualizzazione si può ritrovare anche nella premessa 3.

 

 

Premessa 2: E che la figura formata dai raggi visuali sia un cono avente il vertice nell'occhio e la base sui contorni delle cose viste.

 

 

Come immediata conseguenza della prima, definisce la figura che deriva dalla distribuzione radiale dei raggi visivi: il cono.

Premessa 3: E che siano viste quelle cose sulle quali incidono i raggi visuali, mentre non siano viste quelle sulle quali i raggi visuali non incidono.

 

 

Questa premessa acquista un senso storicamente appropriato se pensiamo che al tempo di Euclide non c'era un'unica teoria della percezione visiva, ma si contrapponevano tra di loro varie ipotesi. Le più importanti erano quelle emissioniste (Empedocle e Platone) e quelle estromissive (Democrito e, con una sua impostazione personale, Aristotele). Il significato di questa premessa potrebbe allora essere individuato in una dichiarazione di scelta teorica da parte di Euclide, che accoglie la teoria emissionista e che quindi esclude che si possano vedere cose che il raggio visivo attivamente non colga. Alla teoria emissionista si opponeva la teoria che voleva che dagli oggetti si staccassero delle immagini, delle pellicole che direttamente o indirettamente imprimevano la forma che contenevano sull'occhio, in modo che la visione fosse passiva e non venisse affatto a dipendere dall'incidenza di raggi visivi sull'oggetto stesso. In questo senso quindi l'oroi fissa uno dei punti principali della teoria. L'altro era stato affermato nella premessa 1, nella quale si postula la possibilità del raggio visivo o della luce di arrivare a distanze grandi quanto si vuole, proprietà contestata, come abbiamo visto, da Aristotele e successivamente da Tolomeo.

 

 

Premessa 4: E che le cose viste sotto angoli più grandi appaiono più grandi, quelle viste sotto angoli più piccoli più piccole, uguali quelle viste sotto angoli uguali.

 

 

La premessa definisce la dimensione apparente degli oggetti come funzione dell'angolo visuale. Questo rafforza in qualche modo l'idea che la geometrizzazione dell'atto visivo porti a identificare il visibile con ciò che è contenuto in una coppia di raggi visivi che formano un angolo visuale, e che la presenza di un solo raggio non permetta la visione della cosa, anche scorrendovi sopra. Quanto sostengo è confermato dal teorema 3: " Per ciascuna delle cose visibili esiste una distanza longitudinale [dall'occhio] alla quale non la si vede più " Se fosse infatti possibile la visione con un solo raggio, muovendo uno dei lati (raggi) dell'angolo visivo a destra o a sinistra, coglieremmo l'oggetto e lo potremmo veder tutto, come direbbe il teorema 1, non simultaneamente ma col trascorrere veloce del raggio lungo i suoi punti.

 

 

Il teorema 3 è molto importante per altre questioni implicite nella sua formulazione, e per questo ritorneremo a considerarlo.

Premesse 5- 6: E che le cose viste sotto raggi più alti appaiono più in alto, quelle viste sotto raggi più bassi più in basso, più a destra quelle viste con raggi più a destra ecc...

La premessa definisce i criteri che regolano la percezione della posizione.

 

 

Premessa 7: E che le cose viste sotto un maggior numero di angoli appaiono con miglior risoluzione

La premessa stabilisce i criteri che regolano la risoluzione visiva.

 

 

Nell'ottica genuina sono citate altre due premesse, non presenti in tutti i codici, la 8 e la 9. In particolare la 9 è interessante : "Non si possono vedere le cose sotto qualunque angolo" perché postula esplicitamente quello che nella recensione di Teone è dato solo in modo implicito nel teorema 3: l'esistenza di un angolo visivo minimo. È solo in questa premessa o ammissione che si può trovare la definizione (esplicita o implicita) della natura discreta dei raggi visivi. L'esistenza infatti di un angolo visivo minimo implica che in esso non può trovarsi alcun altro raggio, il che ne nega la continuità di distribuzione spaziale.

 

 

Euclide scrive un'ottica geometrica, in cui non prende in esame i fenomeni visivi dal punto di vista della sensazione o della fisiologia della visione. Restano quindi esclusi dalla sua opera fenomeni quali, ad esempio, il colore. L'impostazione del suo lavoro allora non lo porta a affrontare argomenti che coinvolgano l'atto del vedere come atto fisiologico e metafisico, come fa Tolomeo, e a scegliere invece un assetto squisitamente matematico, con un numero ristretto di definizioni iniziali e di teoremi che ne conseguono logicamente. Tolomeo e Euclide dovevano entrambi affrontare le stesse evidenze sperimentali: esiste un limite al discernimento visivo e, contemporaneamente, oggetti posti molto lontano sono ancora visibili, a patto che siano abbastanza grandi. L'evidenza sperimentale del limite della visibilità di un oggetto, limite in cui si perdono insieme risoluzione visiva e visibilità, porta, nella scelta di Euclide, ad accettare l'esistenza di un angolo visivo limite, oltre il quale non sia più possibile la visione, senza doverne spiegare i motivi fisici e fisiologici ma badando solo alla sua coerenza con i principi generali della teoria emissionista. Euclide allora si propone nel modo seguente:

  • Postula la propagazione divergente dei raggi visivi che si propagano senza limite di lunghezza (premessa 1), all'infinito.
  • Postula la visione attiva per angoli visuali (premessa 2 e 3)
  • Postula la stima della dimensione apparente degli oggetti in funzione della grandezza dell'angolo visuale (premessa 4)
  • Postula la stima della posizione relativa degli oggetti in funzione della posizione dei raggi che formano l'angolo visivo.(premesse 5 e 6)
  • Postula che la risoluzione visiva sia funzione del maggior o minor numero di angoli sotto cui viene vista la cosa. (premessa 7) Da notare che la premessa non è formulata nel modo seguente: "le cose che sono raggiunte da un numero maggiore di raggi si vedono più chiaramente" ma in essa si usa ancora l'angolo come elemento di visione.
  • Dimostra un teorema (teorema 3) che ha senso solo se è sottinteso che l'angolo che sta esaminando non contenga altri raggi visivi oltre quelli che formano l'angolo stesso.
 

 

Questo teorema 3 presuppone allora implicitamente che la visione avvenga per raggi discreti. La conseguenza immediata delle conclusioni del teorema è che le cose che sono più piccole dell'angolo minimo non si vedono. Poiché potrebbe essere possibile colpirle con un raggio visivo facendolo scorrere lungo tutto il segmento, ne segue che un unico raggio non permette di vedere il corpo, ma è necessario che si possa costruire un angolo visuale che le abbracci. È interessante che anche Tolomeo, nella sua critica al discreto, ammetta:

" E non si vedrano neanche i punti, perché non hanno dimensione, e non sottendono alcun angolo." [Tolomeo Ottica G. Govi Torino 1885 libro II]

 

 

Questa però non è l'unica implicazione importante: il teorema inizia infatti supponendo la cosa sia vista abbracciata proprio dall'angolo minimo, cioè solo dai due raggi che formano i lati dell'angolo stesso. Questo porta alla seconda implicazione fondamentale: perché una cosa sia visibile basta che esistano due raggi visivi che formano un angolo che sottenda la cosa stessa. Si rinforza in questo modo l'idea che nell'ottica di Euclide si veda per angoli, e non per raggi . Il numero di raggi visivi presenti all'interno dell'angolo visivo sarebbe determinante, secondo anche la premessa 7, per la risoluzione con cui la cosa viene vista. In pratica, migliore risoluzione vuol dire che di un oggetto sono visibili maggiori particolari (particelle). Se un oggetto è visto sotto l'angolo minimo, è ovvio che nessuna delle sue particelle interne potrà essere discriminata singolarmente, perché non può esservi un angolo visivo che la sottende. Questo però non implica che non sia visto l'oggetto nella sua globalità, che sarà visto come un tutt'uno indistinto Concludendo, l'ipotesi della discretezza dei raggi visivi, non porta a una visione per punti, ma a una visione per angoli minimi. La visione per angoli minimi giustifica il fatto di parlare di pleionon gonion , angoli più o meno numerosi, quando si tratta di migliore o peggiore definizione visiva: un segmento vicino viene visto più nei suoi "particolari" (che vuol dire infatti "particelle") che se fosse lontano:

 

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gli oggetti AB e CD sono visti sotto lo stesso numero di angoli minimi (4) e lo stesso angolo visuale, quindi la loro grandezza apparente è uguale, ma non lo è la loro discriminazione: di AB si vedono tutti i particolari, perché ognuno di loro è abbracciato da un angolo minimo, mentre CD si vede come un segmento omogrneo, essendo i particolari minori dell'angolo minimo. Si può infine ipotizzare che gli angoli all'interno del cono visivo non siano variabili, cioè che i raggi visuali siano uniformemente distribuiti nel cono. Euclide tiene sempre strettamente separate le questioni della dimensione apparente di un oggetto e la sua migliore o peggiore discriminazione, e l'ipotesi di una distribuzione uniforme dei raggi visivi non lo costringe a mischiarle tra loro. La distribuzione irregolare dei raggi non è necessaria come ipotesi neanche quando si voglia affrontare il problema della non uniformità visiva all'interno del campo visivo (quello, in pratica, legato all'acuità visiva della fovea e della periferia retinica). Questo problema, a mio avviso è presente nel teorema 1.

 

 

Il teorema 1

Questo teorema non riguarda la posizione o la dimensione apparente degli oggetti, ma in qualche modo la loro visibilità. Rientra quindi nei problemi che riguardano il discernimento visivo e la questione dei "pluribus angulis". In effetti la figura che compare nel teorema rappresenta l'angolo visivo che abbraccia il segmento, e alcuni angoli contenuti in esso. La dimostrazione dice che i raggi incidenti "in distantia feruntur", cioè che divergono. Vediamo cosa comporta la divergenza dei raggi, quando scomponiamo l'angolo visivo in angoli minimi uniformi:

 

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Si creano alle estremità del segmento intervalli che l'angolo minimo non riesce ad abbracciare, dal momento che il segmento angolare cresce con il "portarsi a distanza" successivo dei raggi incidenti, pur rimanendo costante l'angolo. La conseguenza di questo fatto è che la periferia della cosa vista non può essere vista contemporaneamente al centro della cosa stessa. Per poterla vedere nella sua totalità bisogna spostare l'occhio (e con lui i raggi visivi) in modo che via via siano colti dagli angoli minimi tutte le sue parti, anche quelle periferiche.

 

 

Anche il teorema 9 afferma la stessa cosa: Le grandezze rettangolari viste da lontano appaiono arrotondate

La dimostrazione del teorema 1 (in entrambe le versioni) dice: si veda AB, l'occhio invece sia in O, dal quale incidano i raggi OA, OC, OD, OB. E così, poiché i raggi incidenti divergono, non incidono con continuità in AB, per cui in AB si formano intervalli ai quali i raggi non arrivano. Quindi AB non si vede tutto simultaneamente. Sembra però che si veda simultaneamente perché i raggi scorrono velocemente. Poniamo ora la questione dell'angolo visuale: in una teoria che ammetta la discretizzazione dei raggi visivi, occorrerebbe distinguere, dato un oggetto, tra l'angolo visuale che lo abbraccia, cioè l'angolo formato dai due raggi visivi estremi che vi incidono, e l'angolo geometrico sotteso dall'oggetto stesso. I due angoli infatti possono non coincidere, dato che non è garantito che esistano due raggi visivi che cadano proprio sugli estremi del segmento (solo una distribuzione continua dei raggi visivi potrebbe farlo) per cui si può solo affermare che l'angolo sotteso è maggiore o uguale a quello visuale. Questo renderebbe difficile il confronto geometrico tra angoli visivi, per esempio, e la stima rigorosa delle dimensioni apparenti di due oggetti. Si potrebbe allora pensare al teorema 1 come a un tentativo di risolvere la questione. È come se col teorema 1 si dicesse: il fatto che i raggi visivi sono discreti non permetterebbe, dato ad esempio un segmento, di disegnare come certo l'angolo visivo che passa esattamente per i suoi estremi, ma poiché nella realtà della visione ci sono degli aggiustamenti in tal senso, possiamo ignorare il problema e geometrizzare la situazione come se l'angolo visivo complessivo fosse sicuramente determinabile congiungendo gli estremi con l'occhio e quindi uguale a quello sotteso. Fatto questo, si possono "matematizzare" tutti i problemi successivi dando come effettivamente coincidenti l'angolo sotteso e quello visivo.

 

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Tolomeo e la visione per raggi

Tolomeo, a differenza di Euclide, affronta l'ottica entrando nel merito della fisiologia e della metafisica associate all'atto visivo. È tenuto allora ad affrontare i tanti "perché" legati a questa materia.
Leggiamo nella sua opera (Tolomeo, Ottica, G.Govi, Torino, 1885) che i raggi visivi sono continui, autoconsapevoli della distanza che hanno percorso nel colpire l'oggetto, che i loro impatti sulle superfici li indeboliscono, così come un lungo cammino o la loro distanza dalla sorgente generatrice: il centro dell'occhio e l'asse del cono visivo. Sono importanti anche le qualità degli oggetti in quanto visibili intrinsecamente, o secondariamente.
Una delle sue interpretazioni critiche dell'ottica di Euclide è sostenuta dalla premessa 3, che afferma: E siano viste quelle cose sulle quali incidono i raggi visuali, mentre non siano viste quelle sulle quali i raggi visuali non incidono. Questa premessa è interpretata da Tolomeo nel modo ben conosciuto: la visione avviene per punti discreti. Ma per confutarla e per mostrare le contraddizioni che ne deriverebbero, egli porta, a mio avviso, argomentazioni scorrette e confuse.
Ecco alcune delle sue considerazioni (libro II).

Sebbene si dia il caso che un angolo più grande dentro un singolo cono visuale contenga più raggi visivi, la vista non percepisce che un oggetto è più grande per l'abbondanza dei raggi che incidono l'oggetto, ...

Tolomeo attribuisce ad Euclide una inesistente relazione tra la stima della dimensione apparente di una grandezza e la quantità di raggi che vi incidono. Mescola dunque in modo scorretto e arbitrario due concetti che Euclide ha nettamente tenuto separati per tutta la sua opera: la grandezza apparente e la risoluzione visiva, nonostante Euclide dica chiaramente che la dimensione è data dall'angolo visuale e non dal numero di raggi che incidono l'oggetto. Tolomeo continua:

In altre parole, si afferma che quando una data grandezza è vista da lontano, sembra più piccola per la scarsità dei raggi, mentre non appare per niente quando nessuno dei raggi la interseca, perché cade nel minuscolo buco tra i raggi stessi. Ma nessuna di queste opinioni è vera, perché nulla sembra più grande o più piccolo solo per la gran quantità dei raggi visivi o per la loro scarsità, dal momento che la quantità di raggi non varia con la misura dell'angolo ma con la loro densità e la loro concentrazione.

Viene ribadita l'attribuzione a Euclide di affermazioni che non ha mai fatto: che una grandezza appare più piccola se allontanata perché vi cade sopra un numero minore di raggi.

[In questo modo] allora una cosa non appare più grande o più piccola, così come un oggetto illuminato non appare più grande o più piccolo a causa dell'abbondanza o della scarsità dei raggi incidenti, ma per la grandezza o piccolezza della sua sezione.

Esattamente ciò che dice anche Euclide.

Ognuno di questi punti è reso evidente dall'osservazione di ciò che accade in pratica. Se infatti guardiamo direttamente con entrambi gli occhi la stessa grandezza nelle stesse condizioni, la vedremo più chiaramente che con un occhio solo. Inoltre, se la guardiamo senza che niente si interponga, apparirà più chiaramente che non se fosse interposto fra noi e lei un mezzo sottile, che resiste in qualche modo al passaggio del flusso visivo. Ora, in nessuno di questi casi c'è un modo in cui l'oggetto possa apparire più grande. Se qualcuno ponesse qualcosa di abbastanza sottile tra un oggetto luminoso e gli oggetti colpiti dalla luce, allora la luce li colpirebbe meno di prima, ma la loro sezione non cambierebbe

L'idea che Euclide imposti la sua ottica su una visione per angoli sembra non sfiorare in nessun modo Tolomeo, che continua a insistere, anche con esempi, sull'ipotesi di una visione per singoli raggi, indipendenti l'uno dall'altro. Sarebbe stato difficile per Euclide costruire un castello matematico su tali basi! Poco dopo Tolomeo propone la sua ipotesi di lavoro:

Inoltre, segue da ciò che abbiamo proposto che la differenza nella dimensione degli oggetti deve essere determinata e percepita secondo le differenze del corrispondente angolo visuale.

senza rilevare che è proprio ciò che Euclide afferma nelle sue premesse.

Ma anche Tolomeo deve fare i conti con il limite della risoluzione visiva. La sua ipotesi della continuità del flusso visivo si scontra contro questo limite.

La vista invece valuta una grandezza quando i diametri della base [della piramide visiva] che è sopra la cosa vista, hanno un rapporto sensibile con la distanza esistente tra noi ed essa; ciò accade quando i raggi che la formano costituiscono un angolo sensibile al vertice della piramide; e per questo motivo molte grandezze che si vedono da vicino non appaiono da lontano, dal momento che i raggi si congiungono portandosi a grandi distanze e formano quindi un angolo impercettibile

In questa prima parte non viene specificato, quantificato il "sensibile" ( o "percettibile"). Non si sa quali sono i valori del rapporto per cui la cosa non è più discriminabile. Aggiunge che i rapporti sono sensibili se lo è l'angolo al vertice della piramide visiva, e che le cose che da vicino si vedono, non si vedono più se si allontanano al punto che l'angolo visivo che le sottende sia di insensibilis quantitatis cioè di quantità non percettibile. Viene per ciò ammessa l'esistenza di un angolo minimo per la visione, anche se non quantificato.
Nella sua argomentazione contro la discretizzazione euclidea Tolomeo dice, giustamente, che se la visione avvenisse per punti:

... non si vedrebbero neanche i punti, perché non hanno dimensione, e non sottendono alcun angolo. Quindi ogni cosa risulterebbe invisibile.

Volendo essere pignoli, anche nella sua ipotesi nulla alla fine sarebbe visto, dal momento che ogni punto del corpo è raggiunta dal flusso visivo, che però sottende un angolo impercettibile, e quindi è tanto indebolito da non "vedere".

 

 

Riassumendo :Tolomeo costruisce le seguenti ipotesi:

  • I raggi visivi si distribuiscono radialmente, e quindi dato un oggetto si può sempre determinare un cono o un angolo visivo che lo sottende
  • I raggi visivi sono continui, (e questo porterebbe alla negazione di un limite della capacità visiva).
  • Sono viste solo quelle cose che sottendono un angolo la cui grandezza è percettibile. Con questa ipotesi Tolomeo reintroduce dalla finestra l'ipotesi dell'angolo visivo minimo che aveva cacciato dalla porta un attimo prima e sana in qualche modo la contraddizione tra la continuità dei raggi visivi e il limite dell'acuità visiva con una definizione quasi circolare di angolo percettibile: un angolo è percettibile se i raggi visivi in esso contenuti sono abbastanza forti da sostenere l'atto visivo.
  • I raggi visivi si indeboliscono in distanza, per cui esiste un limite alla loro efficacia, alla loro capacità di provocare la sensazione visiva, quando le distanze sono molto grandi. Questa ipotesi si allinea all'affermazione di Aristotele, che nega che la vista possa arrivare fino agli astri, e nega quindi che l'unico ostacolo alla visione dei corpi lontani sia la loro dimensione.
  • La percezione della dimensione di un oggetto dipende in ultima analisi dall'angolo visivo sotteso dall'oggetto e non è funzione del numero dei raggi visivi che colpiscono l'oggetto stesso, né l'impossibilità di vedere un oggetto a grande distanza è dovuto al fatto che cade tra raggi visivi discreti, ma piuttosto dall'indebolimento dei raggi visivi stessi.
 

 

Le critiche di Tolomeo nei confronti del modello euclideo sono dunque male impostate, perché nascono da una errata interpretazione del modello stesso-visione per raggi anziché per angoli-e dall'ignorare la distinzione, che Euclide pone nelle sue premesse, tra le condizioni che stabiliscono la grandezza apparente di un corpo e quelle che ne regolano la migliore o peggiore visibilità.

 

 

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