|
Vorrei rispondere a Riccardo Bua sul burn - out degli insegnanti. Ci ho già provato sulla rubrica Italians, ma in quel caso
il mio tono è stato tutto fuorché pacato e chiarificatore, in quanto dettato dalla rabbia e dalla passione. Qualche volta mi
sento un OGM, una specie di patata aliena, tanta è l'ostilità che sento intorno al mio lavoro ed alla mia categoria
professionale di appartenenza. Sono forse nata con lo stigma di un doppio peccato originale?
In realtà la categoria insegnante non è affatto omogenea, anzi direi proprio che non esiste; siamo un gruppo molto folto
di persone assai diverse per motivazione, interessi, competenze professionali ed attitudini. Tutto questo è il risultato di
una politica di reclutamento assolutamente dissennata di cui, però, non sono responsabili gli insegnanti in quanto tali, ma
una classe politica che dagli anni 70 in poi non ha fatto altro che assumere in maniera indiscriminata usando la scuola come serbatoio
di facili voti. "Su... avanti c'è posto per tutti nel ventre molle di mamma scuola" sbraitava il Cirino Pomicino di turno: "non
servono competenze, professionalità, amore per questo lavoro: servono corsetti di preparazione con lavori di gruppo finali (corsi
abilitanti anni 70), leggine ad hoc (varie sanatorie nel corso dei decenni), concorsi con raccomandati ecc. ecc".
Eppure, nonostante tutto, la scuola italiana continua a funzionare ed a produrre cervelli che, saggiamente, espatriano verso
paesi maggiormente rispettosi della cultura e dell'ingegno. Ma se la scuola italiana continua a funzionare, lo si deve a tante persone
che fanno questo lavoro bello e difficile con passione, competenza ed empatia con i propri studenti. Gli individui, quelli seri e
motivati, hanno compensato per decenni le carenze delle strutture, l'assenza di investimenti, il disprezzo dei politici.
A me, come a Riccardo Bua, come all'uomo della strada, è capitato, suppongo, di andare a scuola: dietro ai banchi di scuola, io
ho imparato che esistono tante varietà di insegnanti. Ci sono quelli preparati e motivati, persone stupende (modelli di vita oltre
che riferimento culturale) e ci sono i lavativi e gli incompetenti. Ma come si fa a sostenere che questo è un lavoro che si sceglie
per ripiego? Chi l'ha scelto per ripiego? 800.000 insegnanti? O alcuni di essi, non saprei quantificarne il numero? Non è un
bell'insulto per un intera categoria utilizzare le scelte di alcuni ed estenderle a tutti? E se qualcuno dicesse che i medici
scelgono questa professione solo perché vogliono guadagnare un sacco di soldi? O che i giudici svolgono questo ruolo in quanto
geneticamente "turbati"? (qualcuno una cosa del genere l'ha sparata e ha suscitato un pandemonio!).
Veniamo al burn-out, finalmente. Non ho letto le statistiche con molta attenzione, ma posso ipotizzare che le persone che si ammalano
di burn-out non sono quelli che "ripiegano", ma molto probabilmente, quelli che questo lavoro l' hanno scelto con entusiasmo e motivazioni
di tipo culturale. Per queste persone, il gap fra le aspirazioni e la realtà è, a lungo andare, logorante; a ciò va
aggiunta la scarsa considerazione sociale e l'effetto di questa: lo stipendio basso, vissuto quasi come un insulto. Esistono
realtà, fra l'altro, che pochi riescono ad immaginare: docenti che lavorano nelle cosiddette "aree a rischio" (pressoché
tutto il SUD è un'area a rischio, come pure certe scuole in alcune grandi aree metropolitane), professori che stanno in
trincea, gente che ha in classe figli di camorristi e che comunque vive in contesti in cui la cultura dominante è quella
dell'anti-Stato, del sopruso, della violenza ottusa ed indiscriminata. Sfido qualunque cittadino italiano a provare ad insegnare
in queste scuole: ci vogliono la testa, il cuore e i nervi saldi, oltre a conoscenze e competenze. Oppure, tanta indifferenza. Anche
questa è un'opzione e nel "bel paese' molti, insegnanti e non, così sopravvivono.
Ma senza nemmeno ipotizzare realtà tanto difficili, basta provare ad insegnare a studenti di qualche tecnico o
professionale; l' ho sperimentato per 14 anni ed ho dovuto affrontare studenti che non si compravano i libri, che non sapevano leggere e scrivere nella lingua madre (vero e proprio analfabetismo di ritorno), che non avevano il minimo interesse culturale e che, quando andava bene, ti ridevano in faccia quando volevi fare lezione. Suona bene? Facile? Rilassante?
Infine vorrei sfatare una visione della professione docente come realtà "impiegatizia' e perciò "facile". Partiamo dai numeri,
per capire: si parla tanto delle 18 ore di lezione. Vogliamo, per una volta, fare altri numeri? 18 ore di lezione vogliono dire,
nel mio caso (e nella maggior parte dei casi) 6 gruppi di 25 studenti circa. Qualcuno ha presente cosa voglia dire gestione del
gruppo? Quanta energia, passione, fatica ci vogliono per gestire 6 gruppi di 25 studenti? 150 personcine adolescenti, tutti con i
loro problemi, i loro innamoramenti, sfasamenti, famiglie con problemi? Quanto tempo ci vuole per imparare a conoscerli? Gli
adolescenti imparano se li si coinvolge, se si studiano modi/percorsi, attività che riescano a stimolarne l'immaginazione. Gli
adolescenti imparano se si fidano delle persone che hanno davanti, e per fidarsi hanno bisogno di chiarezza, equità,
preparazione, rigore. Tutto ciò costa, è il frutto di motivazione, competenza, ma anche studio continuo ed attenzione verso
le persone.
La famosa ora di lezione "toccata e fuga" come appare dall'esterno, per avere un qualche impatto, deve essere pensata, strutturata,
organizzata e questo richiede tempo. Le famigerate 18 ore non sono altro che la punta dell'iceberg; c'è il resto, ma la gente
non lo sa o non ci crede. Mi sono presa qualche e-mail insultante da lettori di Italians, proprio su questo punto. Oramai non mi stupisco
più, non mi piango addosso e rispondo a tono. Fra l'altro la strutturazione dell'orario di lavoro dell'insegnante, se non vado
errata, risale addirittura a Gentile, non a qualche sindacalista dei Comitati di Base.
Altri numeri: compiti in classe. Minimo 3 compiti in classe a quadrimestre - quindi 6 a studente. 6x150=900. Ergo, mi correggo
più o meno 900 compiti in classe ad anno scolastico. Lascio agli eventuali lettori il piacere di quantificare in termini di
attenzione ed ore di lavoro.
In conclusione: la professione docente non è affatto quel facile lavoretto di ripiego che può sembrare. Richiede energie,
tempo, fatica, dedizione, studio costante, nervi saldi e molta passione. In realtà sempre più difficili ed ottusamene
burocratiche in cui la creatività e la voglia di fare sono sfruttate, ma non riconosciute in termini di crescita professionale. Una
realtà in cui avere più lauree, titoli professionali, Master ecc. ecc. è assolutamente irrilevante ai fini della "carriera"...
Non è perciò così assurdo ipotizzare che qualche insegnante possa soffrire di patologie "alte" come il burn-out : provare per
credere!
|
|